C’è un prima e un poi nella vita di ogni artista. Il mio è a Roma, Notte Bianca 2007. All’epoca sviluppavo software di realtà virtuale e avevo iniziato a vendere le mie prime composizioni musicali. Nel tempo libero viaggiavo e fotografavo: Africa, India, Sud America… Cercavo una sintesi tra i miei interessi, tornavo in Italia pieno di idee, ma le idee restavano confuse. Quella notte, entrato al Palazzo delle Esposizioni, mi ritrovai sulla destra un grande schermo. L’immagine che rimandava era quella di un enorme mosaico, ogni tessera era il volto di una persona. Di fronte allo schermo, una piccola folla di curiosi sembrava giocare: interagiva. Capii che chiunque si fermava a osservare lo schermo faceva apparire il proprio viso in un punto a caso: era così che prendeva vita il mosaico. In un istante, vidi tutto il mondo concentrato in una sola parola: interattività. Da quel momento non ho più smesso di lavorare su questo tema e sulle sue applicazioni nel mondo dell’arte. Quando oggi qualcuno mi chiede che cosa faccio, rispondo che realizzo specchi magici che trasformano il nostro corpo in immagini e suoni. Nello specchio si riflette la persona: lo spettatore, il performer, a volte io stesso. Il codice è la magia, il filo nascosto che lega il movimento di un braccio a un disegno su un monitor, la nota di pianoforte a uno schizzo sullo schermo. Ma lo specchio prende vita solo se c’è una persona di fronte, ed è a quella persona che mi rivolgo nel cercare possibili relazioni tra arte e tecnologia. Per questo, prima ancora di parlare di algoritmo, ricordo a me stesso di essere un viaggiatore, un musicista, un fotografo che riversa nelle opere le proprie esperienze e le offre al pubblico attraverso quelle tecnologie del nostro tempo che, per convenzione, chiamiamo digitale.